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La struttura dello spazio


Il mio intervento riguarderà alcune questioni relative alla struttura dello spazio. Farò riferimento allo spazio occidentale perché è quello nel quale mi sono formato, in cui vivo e in cui opero. Molto diverso sarebbe il discorso, ma forse non c’è bisogno di chiarirlo, se si trattasse dello spazio nel mondo orientale, estremo orientale e africano. L’analisi che proporrò sarà di natura esclusivamente architettonica. Spero che quanto sarà da me esposto possa interessare anche i medici, gli psicologi e gli studiosi di scienze cognitive. Partirò da tre azioni architettoniche che ciascun essere umano compie in presenza di un contesto costruito. Le tre operazioni sono, nell’ordine, il riconoscimento, l’approvazione e la produzione di una differenza. La prima operazione consiste in una presa d’atto dell’esistenza di un certo sistema di manufatti fisici i quali costituiscono nel loro insieme un intorno ambientale. Tale presa d’atto non è tanto un conoscere quanto un riconoscere, nel senso che gli elementi con i quali si viene in contatto sono confrontati con una serie di elementi analoghi. Il riconoscere iscrive per questo ciò che non era mai stato visto prima nella sfera delle cose di cui si ha conoscenza, come se queste fossero state note da sempre. Questa condizione va confrontata con quanto teorizza Viktor Sklovskj sullo straniamento come modalità per scoprire la vera essenza delle cose, immaginando di vederle per la prima volta. In qualche modo il riconoscimento ha a che fare con la normalità del mondo, il suo essere costituito da insiemi paragonabili per forma, mentre lo straniamento rivela ciò che di unico gli stessi insiemi possiedono. Il riconoscimento precede, come si è detto, l’appropriazione, da intendere come l’esercizio di una sorta di diritto a fare proprio un certo contesto. Se non si esercitasse questo diritto uno spazio o un intorno ambientale susciterebbe solo disorientamento, estraneità, diffidenza e, spesso, un senso di allarme. Si tratta ovviamente di una appropriazione non fisica, ma mentale ed emotiva. Esso riguarda non solo luoghi che hanno che fanno parte della vita degli abitanti di una certa città, ma anche strade, piazze, quartieri, parchi di città, altrettante componenti di un insediamento urbano che si visita per la prima volta. In questo senso il riconoscimento e l’appropriazione sono atti che generano non solo la conoscenza ma anche la memoria che l’essere umano costruisce sullo spazio. La terza operazione è la produzione di differenze. Tale atto concerne l’immissione in un dato insieme ambientale di elementi nuovi capaci di dare vita a un suo rapido incremento evolutivo. Un incremento effettuato non già rendendo esplicite tendenze implicite nel sistema, ma inserendo in esso, come fossero virus, fattori estranei e diversi.

Per comprendere nella loro ampiezza concettuale e nella loro dimensione progettuale le operazioni appena descritte è necessario fare il classico passo indietro. Occorre infatti definire, sebbene in termini parziali e provvisori, la struttura dello spazio, sia quello urbano sia quello architettonico. Lo spazio è composto da regioni, ovvero da superfici dotate di un confine preciso, ossia chiuso. Regioni i cui margini aderiscono gli uni agli altri senza lasciare vuote zone neutrali. Oltre che dai confini le regioni sono dotate di una estensione, di una forma, di una strutturazione interna. I confini sono di due tipi, fisici e virtuali. Essi corrispondono infatti a elementi concreti come recinzioni, muri, canali, filari di alberi, e immateriali quali assialità insediative, allineamenti tra poli visivi e linee che contornano l’aura emessa dai manufatti. Con la nozione di aura si indica un fenomeno architettonico di fondamentale importanza. Un edificio o una strada non finiscono lì dove finisce nel primo caso il volume del manufatto e nel secondo il marciapiede che conclude la strada. Un’architettura o una strada irradiano la loro presenza nello spazio oltre la consistenza fisica che esse possiedono. Questo fenomeno può essere definito come la territorialità degli elementi, nel senso che questi proiettano la loro presenza all’intorno in misura proporzionale alla loro estensione fisica. Lo spazio è dunque determinato non solo dagli oggetti reali ma anche, e a volte soprattutto, dalla parallela presenza di involucri e di linee virtuali che descrivono il loro territorio. Involucri e linee possono anche sovrapporsi dando vita a spazialità invisibili, ma non per questo meno reali e operanti.

L’idea di regione è un traslato effettuato da chi scrive di un concetto proposto da Kurt Lewin nel suo libro Principi di psicologia topologica, pubblicato negli Stati Uniti da Mc Graw-Hill a New York nel 1936, e riproposto in italiano nel 1961 dalla casa editrice OSE (Organizzazioni Speciali Edizioni) di Firenze. Il libro di Lewin utilizzava questo concetto per lo studio delle situazioni comportamentali, identificate come stati della psiche trasposti sul piano dello spazio. Questa intuizione può essere sicuramente di grande utilità anche per l’architettura, in quanto alcune formulazioni si traducono quasi direttamente in enunciati concernenti gli spazi dell’abitare. La strutturazione dello spazio tramite regioni è avvertita sia a livello cosciente sia sul piano subliminale. Ciò è vero per tutti tranne che per gli architetti i quali, al contrario dei non addetti ai lavori, devono identificare a prima vista, come leggendo uno spartito, e con la precisione dovuta, la presenza dei confini immateriali. Per quanto è stato detto l’interpretazione di uno spazio si dà valutando i quattro caratteri delle regioni prima elencati, sui quali si tornerà a breve. Identificare uno spazio è un fatto fondamentale perché identificare è anche identificarsi. Se l’interpretazione di uno spazio non desse risultati certi, questo stesso spazio verrebbe vissuto non solo come indeterminato e indecifrabile, ma anche come qualcosa di ostile e di errato.

Entrando nel merito dei quattro caratteri delle regioni, estensione, struttura, confini, forma, si può affermare che la prima pone il rapporto tra ciò che è visivamente misurabile e ciò che resta in qualche modo privo di una dimensione accertabile. Se non è possibile misurare l’estensione di uno spazio si produce l’impressione negativa di essere all’interno di qualcosa di non interamente compiuto. L’abitante di un intorno ambientale che rimane indeterminato nella sua grandezza prova un profondo senso di insicurezza, nel senso che non riesce a conoscere un elemento importante del contesto in cui egli si trova. La stessa cosa si può dire per gli altri tre caratteri della regione. Se la sua struttura non riesce ad essere memorizzata la regione rimane sostanzialmente irrisolta. Anche quando manca una forma definita la lettura della regione risulta ostacolata, ciò che è causa di disorientamento e di disagio. Se infine l’intelligenza dei confini non è completa confinare la posizione e il disegno delle porte che consentono di passare in modo significativo da una regione all’altra, tutte le sensazioni negative che si provano in assenza degli altri caratteri quella impressione di insicurezza di cui si è già detto è destinata ad aumentare fino a divenire del tutto incontrollabile. Un’impressione oscura e destabilizzante che finisce con il non consentire di agire lo spazio, costretta per questo a restare per sempre un altro preoccupante e un altrove irraggiungibile.

Ai confini, che come si è detto all’inizio di queste note si distinguono in reali e virtuali, è forse necessario dedicare ancora qualche osservazione. Sono reali quando si identificano in infrastrutture, segni agricoli insediativi ed edifici. Immediatamente visibili essi si configurano come elementi solidi, presenze dotate di una propria durezza e di una continuità interrotta in punti singolari come porte o varchi meno definiti. Le Mura Aureliane a Roma costituiscono un recinto esemplare, così come lo è il GRA, oggi in realtà non più il confine esterno della città ma una sua importante soglia interna. Per quanto riguarda i confini virtuali basta leggere la Piazza del Campidoglio di Michelangelo per accorgersi che la sua unità quasi scenografica si disarticola in una serie di ambienti più ridotti, definiti da limiti immateriali, i cui margini si sovrappongono parzialmente. La Piazza del Campidoglio si configura per questo come un campo di forze nel quale i volumi reali e le loro irradiazioni generano una successione di ambienti contenuti l’uno dentro l’altro, i quali determinano nel loro fondersi l’identità architettonica di quel luogo straordinario.

Identificare uno spazio significa identificarsi. Se ciò non avviene, in quanto quello stesso spazio non ha una struttura chiara, si prova la sensazione di perdere l’orientamento, che è quasi quello smarrirsi di cui ha scritto Walter Benjamin, ma senza la scoperta di una città sconosciuta che fa del perdersi del filosofo tedesco un’arte. Perdere l’orientamento significa non sapere dove si è, ovvero non avere più il controllo del proprio agire. Identificare comporta l’atto fondativo del nominare, vale a dire dell’assegnare alle componenti del mondo, della città e dell’architettura il loro senso, organizzando i loro elementi in quegli ambiti di confrontabilità che consentono il riconoscimento dello spazio. Le relazioni topologiche tra il dentro e il fuori, tra il vicino e il lontano, tra l’aperto e il chiuso, tra il limitato e l’illimitato fanno sì se esse sono espresse con chiarezza e descrizione, che chi è in uno spazio si senta al sicuro perché si rende conto di quanto è grande, dove finisce, dove sono collocate le porte, quale è la sua forma. In questo modo la claustrofobia e l’agorafobia sono escluse così come l’impressione che lo spazio possa essere uno scarto, una terra di nessuno, una waste land eliotiana o, se si preferisce, lo junkspace di cui ha parlato Rem Koolhaas. L’antidoto al disvalore dello spazio, alla sua essenza irrilevante, casuale e destabilizzante è che esso sia inteso come una tessitura continua attraverso la quale ogni punto del mondo riceve il suo nome e, assieme a questa, una necessità.

Il discorso fatto finora rivela una contraddizione fondamentale dell’architettura moderna. Lo spazio è un elemento positivo dell’abitare solo quando è misurato, strutturato, quando è possibile leggere agevolmente la sua forma e i suoi confini. In realtà lo spazio della metropoli moderna è esattamente l’opposto di quello descritto, uno spazio che genera senso di sicurezza, di benessere e di appartenenza. In qualche modo la metropoli moderna è l’inverso di quello che dovrebbe essere. Il suo immaginario, definito non solo dall’architettura, ma anche e soprattutto dal cinema, dalla letteratura e dall’arte, è pervaso dal fascino del pericolo, dalla suggestione della dismisura, dalla seduzione dell’incompletezza, dal richiamo dello spaesamento e dell’abbandono. Alla fine degli Anni Sessanta Christian Norberg-Schulz, sulla base delle teorie di Jean Piaget e, successivamente, di quelle di Martin Heidegger tentò, a partire dal suo celebre saggio Il concetto di luogo, pubblicato nel 1969 sul numero 1 di Controspazio, una rivista fondata da Paolo Portoghesi, di contrastare questa tendenza. Egli riaffermava la centralità di un’idea umanisticamente identitaria degli spazi della città, nella quale il sito e la storia si fondevano. Questa correzione ebbe senz’altro un successo notevole, coincidente con la stagione breve del Postmodernismo. Con la famosa mostra al MOMA (Museum of Modern Art) di New York, del 1988, sul Decostruttivismo, che dette vita alla svolta neo-avanguardista le concezioni e le pratiche atopiche ripresero rigore, culminando nel 1993 nel libro Non luoghi di Marc Augé, una sorta di vero e proprio manifesto che legittimò il declino dei luoghi a favore degli spazi della disidentità, del residuo della genericità illimitata e pertubante . Anche architetti italiani tra i quali Giancarlo de Carlo, Aldo Rossi, Vittorio Gregotti, Giorgio Grassi, Luciano Semerani, Pasquale Culotta, ciascuno a suo modo cercarono di agire sulla contraddizione tra l’esigenza di chi abita di disporre di spazi architettonicamente equilibrati, capaci di esprimere i valori della comunità ma anche in questi casi i risultati, seppure pregevoli sono rimasti isolati. Occorrerebbe al più presto affrontare il problema di questa autentica schizofrenia facendo sì che ci sia una coerenza tra un certo numero di esigenze umane indiscutibili e, per così dire, invarianti nel tempo, e la risposta che ad esse la cultura progettuale moderna e contemporanea sta fornendo. A questo proposito si può senz’altro concordare sul fatto che intervenire in un modo o nell’altro su questa contraddizione si dimostra oggi essenziale per un futuro del territorio e della città che sia capace di riconciliare lo spazio con chi lo abita. A tal fine occorre che gli architetti apprendano di nuovo il sapere spaziale di cui si è detto in queste note. Un sapere oggi banalizzato, trascurato, frainteso, quando non del tutto dimenticato.

Franco Purini Roma, 15/7/2009

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